Abuso di autorità contro arrestati o detenuti

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Motivo: Reato certamente previsto anche da altri ordinamenti
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Delitto di
Abuso di autorità contro arrestati o detenuti
FonteCodice penale italiano
Libro II, Titolo XII, Capo III, Sezione II
Disposizioniart. 608
Competenzatribunale monocratico
Procedibilitàd'ufficio
Arrestonon consentito
Fermonon consentito
Penareclusione fino a 30 mesi

Nell'ordinamento penale italiano, l'abuso di autorità contro arrestati o detenuti è un delitto contro la libertà personale punito dall'art. 608 del codice penale.

«Il pubblico ufficiale, che sottopone a misure di rigore non consentite dalla legge una persona arrestata o detenuta di cui egli abbia la custodia anche temporanea, o che sia a lui affidata in esecuzione di un provvedimento dell'autorità competente, è punito con la reclusione fino a trenta mesi. La stessa pena si applica se il fatto è commesso da un altro pubblico ufficiale rivestito, per ragione del suo ufficio, di una qualsiasi autorità sulla persona custodita.»

(art. 608 c.p.)

Struttura

L'art. 608 c.p. configura un reato proprio del pubblico ufficiale (ma anche del cittadino privato nel caso in cui proceda a un arresto in flagranza ex art. 383 c.p.p.).[1]

Vittima del reato è una persona affidata alla custodia anche temporanea del pubblico ufficiale, ma arrestata comunque in modo legittimo, in forza di un provvedimento dell'autorità; in caso contrario ricorrerebbe il reato aggravato di arresto illegale (art. 606 c.p.).[1]

La condotta consiste nel sottoporre la vittima a «misure di rigore non consentite», cioè a punizioni non previste dagli appositi regolamenti penitenziari.[2][3] Non può trattarsi comunque di un generico trattamento umiliante, ma sempre e solo di una misura che effettivamente aggrava la restrizione della libertà personale che già affligge il detenuto.[4] Se le misure sfociano nella commissione di un altro reato, si applica la relativa norma incriminatrice (percosse, lesioni personali) in concorso con l'art. 608 c.p.[1][4]

Oggettività giuridica

La norma si inserisce nell'ambito della tutela della libertà personale del detenuto (art. 607-609 c.p.): questa libertà infatti, pur gravemente limitata e «residuale»,[1] non è mai del tutto soppressa.[5] La predisposizione della tutela è conforme alle previsioni degli art. 134 e 273 della Costituzione: il primo infatti punisce gli abusi (violenze fisiche e morali) sui detenuti;[4] il secondo sancisce i principi di umanità e rieducatività della pena.[6]

Trattamento sanzionatorio e critiche

I limiti edittali della pena consistono rispettivamente in 15 giorni nel minimo[7] e 30 mesi nel massimo.

Come nel caso degli altri delitti contro la libertà personale del detenuto (arresto illegale, indebita limitazione, perquisizione o ispezione arbitraria), si tratta di un reato di abuso dei poteri di coercizione, che riceve dal codice un trattamento privilegiato e una pena più mite rispetto alle fattispecie generali di cui rappresenta specificazione.[8]

Note

  1. ^ a b c d Antolisei, p. 163.
  2. ^ Legge 26 luglio 1975, n. 354, articolo 41 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà).
  3. ^ Decreto del presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230 (Regolamento recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà).
  4. ^ a b c Pulitanò, p. 224.
  5. ^ Corte costituzionale 349/1993.
  6. ^ Brazzi, pp. 10-11.
  7. ^ Limite minimo generale per la pena della reclusione.
  8. ^ Pulitanò, pp. 223-224.

Bibliografia

  • Francesco Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte speciale I, a cura di Carlo Federico Grosso, 15ª ed., Milano, Giuffrè, 2008, ISBN 978-88-14-13835-5.
  • Massimo Brazzi, La difesa dell'indagato nella fase precautelare. L'arresto in flagranza e il fermo, Milano, Giuffrè, 2012, ISBN 978-88-14-16594-8.
  • Domenico Pulitanò (a cura di), Diritto penale. Parte speciale, vol. 1 (Tutela penale della persona), 2ª ed., Torino, Giappichelli, 2014, ISBN 978-88-348-4446-5.

Voci correlate

Collegamenti esterni

  • Sentenza n. 349 del 1993 della Corte costituzionale.
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